L’altro giorno stavo andando, rigorosamente a piedi, verso lo studio del moroso (che in romagnolo vuol dire fidanzato senza l’anello). Fa il pittore, nel senso che dipinge quadri, e per arrivare al suo studio si passa da un parchetto che di sera brulica di spacciatori, ma di giorno è molto carino.
Passavo dal parchetto e intrattenevo con me stessa una conversazione immaginaria (cosa piuttosto frequente). Perché scrivi? Mi chiedevo. Non mi capita spesso di chiedermelo, davvero, ma questa volta forse avevo una risposta, così mi sono concessa di pormi la domanda.
Ho 30 anni e quasi nessun tipo di istinto materno, ma in questi giorni mi è capitato di pensare che mi sarebbe piaciuto avere una figlia. Qualcosa a che fare col passaggio generazionale di un baule pieno di tarocchi e libri di magia che tengo in camera da letto.
Così passando per il parchetto pensavo che nel prossimo romanzo ci sarebbero state una madre, e una figlia.
Scrivo quello che non posso, o non voglio, avere. Un fratello gemello, un’avventura, una casa, poteri magici. Che poi tutto viri al tragico è un’altra questione… o forse anche nella funzione non riesco a fingere del tutto.